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L'opinione che non ha la presunzione di essere giusta

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The French Dispatch

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Wes Anderson nella tana del Bianconiglio

Se nel 1999 Morpheus avesse visto The French Dispatch probabilmente l’ormai iconica frase di Matrix sulle pillole rossa e blu suonerebbe così:

Pillola azzurra, fine della storia: domani ti sveglierai in camera tua, e crederai a quello che vorrai. Pillola rossa, voli nella redazione de The French Dispatch, e vedrai quanti micromondi è in grado di creare Wes Anderson in meno di due ore.

Si ma per chi non lo sa, chi è Wes Anderson?

Classe 1969 il giovane Wesley Wales Anderson nasce nel luogo più immaginifico e di larghe vedute che l’America del tempo era in grado di offrire: il Texas.

Una terra in cui l’erba del vicino non solo è più verde ma se un parassita decide di infestarla, un calcio rotante di Chuck Norris risolve la questione.

Personalmente ho sempre visto il Texas nella forma delle sue due città principali: Houston e Dallas. Chiunque abbia sognato di diventare astronauta conosce la prima mentre Dealey Plaza ha reso famosa in senso negativo la seconda nel 1963. Ma il Texas è ancora in grado di risplendere, forse anche troppo. Dal 2009 i Dallas Cowboys giocano a football nell’enorme AT&T Stadium, un’opera ingegneristica costata oltre un miliardo di dollari e ricoperta quasi per intero da una cupola in vetro.

Maestra, mi scusi ma se il vetro riflette la luce del sole i giocatori non rischiano di restare abbagliati

Non dire assurdità. Ci avranno pensato, no?

Davanti a un’offerta così ampia, come mai allora il giovane Wes desidera trasferirsi a New York?

Scherzi a parte, questa introduzione è necessaria per definire gli argini del contesto. West e East Coast non erano solo distanti a livello geografico ma culturalmente rappresentavano una l’opposto dell’altra. Le informazioni reperibili sulla sponda Pacifica degli Stati Uniti erano poche e non sempre provenienti da canali veritieri. Per quanto ci provasse quindi, la costa Ovest non riusciva a stare al passo con La Grande Mela che dava asilo alle maggiori agenzie di stampa e case editrici.

I ragazzini in quel periodo leggevano le avventure di supereroi che lanciavano ragnatele a Manhattan. Perfino il kryptoniano Kal-El decide di abbandonare il Kansas e cercare fortuna in una Metropolis troppo simile a New York per non accorgersi dei riferimenti.

Rushmore - 1998
Rushmore – 1998

Il contesto in cui nasce e cresce il giovane Wes è quindi quello delle storie vissute in terza persona. Libri, fumetti, film e qualunque altro media su cui riesce a mettere le mani diventano una finestra sul mondo idealizzato del quale è l’eroe sempre al centro della scena (Rushmore – 1998).

Un titolo in particolare spicca tra tutti: The New Yorker, settimanale nato a metà degli anni Venti e diventato famoso per l’apparato grafico e l’estrema veridicità delle informazioni dei redazionali.

Per farla breve, se i fotografi puntano al National Geographic, i giornalisti vorrebbero un ufficio al The New Yorker.

Tratti distintivi tra estetica e contenuto

All’interno della filmografia di Anderson è facile individuare elementi ricorrenti che oltre al lato estetico arricchiscono la storia di spunti autobiografici.

Movimenti di camera puliti quanto l’estrema simmetria delle scene si aggiungono alla palette colori che trasforma la pellicola nel pensiero felice del quale ogni bimbo sperduto è alla ricerca prima di essere ricondotto alla dimensione adulta.

Come una canzone di Pezzali il regista ricorda con nostalgia l’età dell’adolescenza anche se è evidente il trauma della separazione dei genitori e la figura inesistente del padre.

I suoi personaggi sono costretti a comunicare la propria personalità attraverso gli oggetti perché le parole risultano inefficaci (Un treno per il Darjeeling – 2007). Le famiglie sbilanciate si allontanano dall’ideale delle serie TV anni Ottanta.

Genitori che non riescono ad essere esempi per i loro figli (Tenembaum – 2001) e ragazzini alla ricerca di accettazione attraverso una divisa da lobby boy (Grand Budapest Hotel – 2014) diventano l’emblema di un distacco tra il mondo reale e quello ideale.

Ma quindi The French Dispatch parla di un giornale oppure di traumi infantili?

Domanda complessa, suddividiamola in più parti.

Location

La vicenda inizia nella redazione de The French Dispatch a Ennui-sur-Blasé. Siete sicuri? In verità il film è stato girato ad Angoulême: rappresentazione stereotipica della città francese.

Se avete attraversato La Manica almeno una volta vi sarete accorti di come la geografia di Anderson non si basi sull’esperienza del luogo quanto sulla cartolina fatta di stradine che non procedono dritte, gatti sui tetti, vecchine che vendono fiori, locali fumosi e rivolte studentesche. A una base reale il regista aggiunge elementi immaginari.

Vicende

Pronti a raggiungere le 88 miglia all’ora. The French Dispatch si apre con la lettura del testamento del direttore della rivista nel quale è indicato espressamente che il giornale dovrà cessare ogni attività.

Flashback e siamo intenti a seguire un cameriere mentre porta la colazione in redazione. Il direttore è vivo e vegeto e facciamo la conoscenza dei vari giornalisti intenti a preparare gli articoli per la successiva pubblicazione. Nessuno sospetta nulla, non vi è il minimo sentore che sarà l’ultimo numero de The French Dispatch.

Costruire l’indice di una rivista è come realizzare una playlist per Rob Gordon, un’operazione che segue regole precise nella quale ogni traccia assume importanza in relazione alle altre. The French Dispatch racconta in questo modo tre storie:

  • Un capolavoro nel cemento, ménage à trois tra un gallerista, un galeotto e la sua musa.
  • Revisioni di un manifesto, in cui il binomio essenza/apparenza raggiunge l’apice.
  • La sala da pranzo del commissario di polizia, ricetta perfetta con ingredienti crime e media sovrapposti.

La chiusura del cerchio è il momento in cui il direttore muore e l’intera redazione decide di onorarlo trasformando l’ultimo numero nel necrologio mostrato all’inizio.

Perché vale la pena vedere The French Dispatch

Vi ricordate quando da piccoli la maestra vi chiedeva cosa avreste voluto fare da grandi. I futuri più gettonati erano astronauta, esploratore e ingegnere seguiti a ruota da banchiere, calciatore e Presidente della Repubblica (sì, ho avuto dei compagni di classe discutibili).

Dal canto mio mi sarebbe piaciuto lavorare nel ramo editoriale. Quando accompagnavo mamma dal parrucchiere sfogliavo con ammirazione riviste come Life e National Geographic (sì, il mio parrucchiere è particolare).

Mi piaceva l’idea di raccontare ciò che vedevo perché se un amico andava in vacanza al mare e io invece in montagna, attraverso le reciproche storie era come se fossimo stati in entrambi i posti (sì, va bene, lo abbiamo capito).

The French Dispatch - Uffici
The French Dispatch

The French Dispatch è la redazione giornalistica ideale, come dovrebbe sempre essere. I giornalisti hanno una propria identità, una specializzazione e un ufficio che li rispecchia. Insieme collaborano in modo organico alle scelte editoriali.

Grazie alla propria arte sono in grado di mantenersi e hanno la sicurezza di potersi concentrare nella ricerca e nella stesura di articoli in cui ogni parola conserva il giusto significato e come in una canzone, collabora con le altre affinché nel lettore scoppietti la scintilla della curiosità e si innamori di ciò che si trova davanti.

Come un bambino intento a creare il proprio mondo in miniatura, Anderson è attratto dalle vicende che si alternano sulla scena e si cala nell’universo emotivo dei personaggi per mostrare la loro percezione del mondo. La stessa visione che poi ritroveremo su carta e che mi ha avvicinato in tempi non sospetti alla scrittura e alla fotografia.

Tra le righe

The French Dispatch è un’ode al giornalismo composto da persone che lavorano insieme per raggiungere l’ideale puro di informare e intrattenere.

È interessante vedere come la rivista esista solamente grazie alle personalità talvolta eccentriche dei suoi redattori e che la fiducia non venga negata nemmeno a chi non ha mai completato un articolo.

The French Dispatch

Wes Anderson cammina tra quei personaggi che gli tenevano compagnia da ragazzo consigliandogli di interrompere gli studi filosofici in virtù di una promettente carriera cinematografica. Tuttavia, più si avvicina a quel mondo ideale più si rende contro dell’impossibilità per l’uomo di raggiungere la realtà dei fatti se non attraverso immagini o racconti indiretti. Il concetto è metaforizzato dalla morte del direttore Arthur Howitzer Jr. e dalla chiusura della testata.

Come Halliday alla fine di Ready Player One, Anderson è un regista disilluso dal mondo che si trova davanti e preferisce perciò trasferirsi per qualche ora nella cartolina che ormai nella sua mente è diventata un intero multiverso.

Perché dovreste guardare The French Dispatch? Perché se siete arrivati fin qui significa che il giovane Wes può continuare a sognare.


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