Attraverso la mostra Terre Alte McCurry ha compiuto un vero e proprio miracolo: ha concretizzato l’ormai famigerata reunion di amici con i quali ai tempi dell’università trascorsi una vacanza studio in Inghilterra. Se quelle de Il signore degli anelli e Friends sono incredibili fidatevi quando scrivo che questa è ai confini della realtà!
McCurry: parliamo subito dell’elefante nella stanza
Il nome di McCurry è tra i più discussi in fotografia: l’innegabile esperienza e la qualità artistica si scontrano con le accuse di costruzione dell’immagine attraverso soggetti posati e contesti poco realistici che lo allontanano dal concetto di reportage.
Reportage, questo sconosciuto
Reportage rientra in quell’insieme di parole dal significato aleatorio che lasciano spazio all’immaginazione. Semplificando, l’inviato non si limita a raccontare la notizia ma cerca di ampliare il contesto con il maggior numero di elementi possibile affinché il lettore sia in grado di costruire un proprio punto di vista.
Possiamo dunque dire che il reporter raccoglie i dettagli dell’istante di realtà che si sta svolgendo per presentarli poi allo spettatore e lasciare a lui l’interpretazione.
McCurry può definirsi reporter?
McCurry non è un reporter, non più almeno. Lui stesso preferisce definirsi uno storyteller che avvicina gli studi cinematografici alla narrazione indipendente e fine a se stessa. Immaginate una sua mostra come un libro di favole in cui ogni capitolo ha una sua identità ben precisa con la quale collabora alla valorizzazione dell’opera nel suo insieme.
Come si visita un racconto?
Realizzare un racconto è come pianificare un viaggio: si definiscono i personaggi, il punto d’inizio e lo svolgimento. Il finale viene solo abbozzato e si perfeziona durante la stesura.
Se consideriamo una mostra al pari di un libro dove ogni opera rappresenta un capitolo la metafora diventa evidente.
Quando acquista il biglietto lo spettatore ha un’idea che alla fine verrà confermata o smentita a seconda della gestione del percorso da parte dell’autore. La creazione di un punto di vista non è dunque completamente libera bensì limitata da un meccanismo regolato a monte.
Con Terre Alte McCurry cambia le regole del gioco lasciando completa libertà di movimento allo spettatore che può operare su trama e intreccio.
Non esiste un percorso predefinito e le stanze sono collegate tra loro attraverso molteplici punti d’ingresso e uscite. L’ago della bussola cambia direzione a seconda del fattore emotivo, grafico, esotico che in quel momento conquista il predominio sull’anima del visitatore.
Personalmente mi sono divertito a rimescolare le carte in tavola. La prima volta ho dato importanza alle destinazioni raggruppando tutte le immagini di una specifica zona, poi è stato il turno della datazione dalla meno recente alla più attuale e via dicendo. Ogni volta il punto di vista si arricchiva senza mai risultare caotico.
Steve McCurry, Terre Alte
Se notate il titolo della mostra antepone a Terre Alte il nome di McCurry sottolineandone il punto di vista e lo stile personale. Ciò che ci si trova davanti non sono vette inarrivabili che farebbero gola agli spericolati point breakers bensì luoghi radicati nella storia dell’autore che qui dona allo spettatore alla maniera dei nonni quando mostrano ai nipoti le proprie foto ingiallite in bianco e nero.
I monti tra India e Pakistan lungo i quali ha marciato senza documenti ne strumenti tecnici se non la propria macchina fotografica, il Tibet che gli ha fatto conoscere le filosofie orientali. Ogni località ritratta rappresenta il punto di vista e lo stile del narratore Steve McCurry: questa è la chiave di lettura della mostra.
Entrate emotivamente nelle opere immedesimandovi nei soggetti ritratti. Percepite su di voi il calore dei falò nel deserto, fate esperienza del freddo tibetano dei villaggi di Kham e Machen e perché no della fastidiosa umidità della regione di Bago in Myanmar.
Solo quando i vostri occhi vedranno lo spettatore vi renderete conto che colori, inquadrature, luci e soggetti sono importanti dettagli che tuttavia formano solo la cornice di un significato più profondo e nascosto.
Il significato più profondo e nascosto
Terre Alte mostra molteplici chiavi di lettura. A prima vista essa rappresenta un’ode cinquantennale alla montagna declinata come entità a se stante all’interno del contesto naturale in grado altresì di esercitare un’influenza sulla concezione antropologica e creare nelle popolazioni che la abitano un’identità condivisa.
Le rughe sulla fronte dell’ingegnere ferroviario di Lanḍī Kōtal ricalcano come carta velina le linee increspate delle catene montuose al confine pakistano. Allo stesso modo i volti dei giovani tibetani esprimono i colori delle bandiere di preghiera che adornano i sentieri della loro terra.
Vedere l’immagine non basta per poterla conoscere. È necessario ascoltarne la storia assecondandone i silenzi e godendo dei tempi dilatati a cui la nostra routine iperveloce ci ha ormai disabituato.
L’attrazione per i soggetti ritratti sviluppa nello spettatore un desiderio quasi tattile di esperienza: il loro stile di vita ma soprattutto il rapporto primordiale e intimo che hanno con la Terra ci incuriosiscono a tal punto da esserne quasi invidiosi.
La loro disarmante serenità davanti alla consapevolezza di essere al servizio della natura squarcia il velo di sicurezza dietro al quale l’essere umano si nasconde in cerca di rifugio. Uomini e donne delle terre dei monsoni e delle tempeste di sabbia rivelano l’illusione che evoluzione e tecnologia possano avere la meglio sulle forze creatrici che regolano il mondo.
La domanda alla fine del racconto
La montagna è la protagonista della mostra. Impervia e imponente da secoli attira esploratori e avventurieri disposti a mettere a rischio la propria sicurezza pur di conquistarla.
E se invece non fosse questo il motivo ed essa rappresentasse l’origine alla quale inconsciamente tentiamo di fare ritorno.
In tal caso il bisogno di infinito che solo le vette attraverso il loro fascino estremo sono in grado di appagare potrebbe essere l’obolo pagato dall’uomo per vivere tra agi e comodità.
La domanda alla fine del racconto riguarderebbe dunque la relazione tra l’uomo e le Terre Alte. Siamo disposti ad accettare la nostra condizione nei confronti della natura per tornare ad essere parte di quell’unica entità che per tutta la vita abbiamo cercato di conquistare con tutte le nostre forze, rinnegandola e contrastandola invece di abbracciarla?
Quarta di copertina
McCurry e Salgado sono stati i primi due autori ad accogliermi nel panorama fotografico mostrandomi le meraviglie di un mondo rispettivamente a colori e in bianco e nero.
Da loro ho appreso il processo creativo in grado di generare significati ed emozioni.
Visitare una mostra equivale a sedermi sul divano dell’autore, nel proprio salotto di casa e ascoltare le storie dei soggetti ritratti. Significa ridere insieme, stringere le loro mani per trasmettergli calore e abbracciarli quando hanno paura o sono tristi.
In modo scherzoso all’inizio ho scritto che McCurry è riuscito a farmi riunire a dei cari amici e sapete qual è stato il primo gesto che ci siamo scambiati dopo mesi che non ci vedevamo? Lo stesso sorriso che ho rivisto sul volto della ragazza in Batang e del pastore in Litang.
In quel momento ho realizzato di essere parte di quelle persone come di Afghanistan, Tibet, Scozia, Mongolia, Giappone, Brasile, Birmania, Filippine, Marocco, Yemen, Antartide e di tutte le Terre Alte.
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