Wander Allen

L'opinione che non ha la presunzione di essere giusta

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Vero. Punto.

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Da qualche mese ho iniziato a esplorare un nuovo social network chiamato Vero. Questo esercizio mi ha permesso di ragionare in modo generico sull’evoluzione dell’esperienza utente e su come l’iniziale trittico creazione, condivisione e fruizione dei contenuti sia cambiato.

Benvenuti (o bentornati) nel 1996.

Quando c’era Hotmail

Per quelli come me cresciuti tra i Novanta e i Duemila il termine hot porta con sé un senso di proibito ormai sdoganato. Le hotline dei telefilm americani erano i telefoni che squillavano in continuazione.

In italia il termine squillo assume altri connotati e ancora oggi quando penso hotmail nella mia mente il collegamento ai film di Lino Banfi che giravano su Antenna3 o roba simile è pressoché istantaneo.

In ogni caso hotmail.it è stato il suffisso della mia prima casella di posta elettronica in un momento storico in cui tutti la usavano solo per accedere a MSN, un servizio che permetteva lo scambio istantaneo di messaggi tra computer diversi.

Big data a chi?

Nel 2005 i cookies erano solo biscotti per la colazione e nessuno avrebbe immaginato che quasi vent’anni dopo saremmo stati sommersi da problemi di privacy.

Le aziende però volevano accaparrarsi la più grande fetta di pubblico possibile e di conseguenza iniziò una gara a chi offriva più servizi.

Oltre a MSN, sottoscrivendo l’account hotmail si accedeva ad esempio a MySpace.

MySpace = il mio spazio

Condividendo la camera con due fratelli l’idea di uno spazio tutto per me era allettante ma c’erano diversi problemi.

Internet non era sdoganato, le connessioni erano instabili e sicuramente meno flat rispetto alla situazione attuale. Di conseguenza gli utilizzi erano limitati e in pochi avrebbero visto il mio spazio.

Ma prima di tutto: che cos’era il mio spazio? Come si spiega il mondo digitale a qualcuno che fino a quel momento ha sempre vissuto in quello reale? Come si gestisce qualcosa che non esiste?

Credits: NASA

Nello spazio nessuno più sentirti urlare

Un problema può avere molte facce e spesso alcune di esse sono opportunità. Se nessuno sapeva dell’esistenza del mio spazio, nessuno avrebbe potuto giudicarlo e di conseguenza sarei stato libero di sperimentare, giocare, creare, distruggere ma soprattutto avrei avuto l’opportunità di sbagliare.

Vi auguro di sbagliare

Nessun insegnante direbbe mai ai propri alunni che è giusto commettere errori: in campi come quello medico lo sbaglio è inaccettabile per ovvie ragioni.

Eppure fortunatamente qui non si parla di salvare vite ma di giocare con qualcosa che non esiste dando forma all’informe. Uno dei significati del termine sbagliare è formula con cui si introduce un’opinione personale: il focus dunque si sposta sulla possibilità di far ascoltare la propria voce.

14 Settembre 2012

Scorrendo (scrollare mi fa pensare ad altro e non lo userò) le fotografie del mio profilo Instagram sono arrivato alla prima in assoluto: un piccolo albero nella corte interna della biblioteca dove studiavo.

La intitolai Il giardino che non c’è perché pur essendo molto esteso e situato in pieno centro storico risulta invisibile dall’esterno. In quello scatto c’era una prima flebile scintilla dell’idea che avrei costruito in futuro: raccontare il mio punto di vista sul mondo.

Inconsciamente avevo ampliato il mio spazio. Oltre a MySpace ero sbarcato su Instagram, una piattaforma che crea(va) community attorno alla fotografia.

Rispetto a MSN e Facebook non era necessario un legame di amicizia, bastava la passione per l’ottava arte.

Fast forward

Sono da poco passati dieci anni da quello scatto e come l’albero anche il mio stile fotografico è mutato sperimentando nuovi soggetti, attrezzature e contesti. Il mio spazio e la mia rete si sono ampliati. Ciò che è rimasta invariata è la ricerca, la voglia di confrontarmi con altri giocatori.

Più giocatori, più piattaforme. Di cosa ti lamenti?

Ognuno di noi sceglie un contesto nel quale crescere perché in qualche modo rivede in esso degli aspetti stimolanti in grado di renderlo attivo. Ma allora per quale motivo davanti a un’offerta così ampia di piattaforme ho la sensazione di nuotare sempre nella stessa acqua?

Mi piacerebbe che questo articolo tra le altre cose fosse l’input per una considerazione su creatività e ispirazione e non l’ennesima polemica sulla deriva delle belle idee. Perciò vi propongo un gioco al quale può partecipare chiunque abbia l’interruttore creativo impostato su on.

Compromesso

Pensate a una parola, mettetele davanti un # e cercatela ad esempio su Instagram. Cosa state guardando?

Non rispondetemi.

Ora scorrete il feed (altro termine strano) e continuate a guardare. Cosa state guardando?

No, non ancora.

Ritornate all’inizio e contate quante immagini soddisfano l’idea della parola iniziale.

La parola che ho cercato io è photography e il numero è inferiore a dieci nei primi due minuti di esercizio. Spero che a voi sia andata meglio.

Questo può significare tre cose: le mie aspettative sono troppo alte, Ratatuille aveva ragione e chiunque può fotografare, oppure quello che vedo non è quello che vorrei vedere.

Essendo ospite di un servizio gratuito l’utente deve adeguarsi agli algoritmi che lo regolano e agli investimenti che ne detengono le redini.

Se ora provassimo a ripetere l’esercizio sulla pagina principale dell’app, quindi senza una ricerca specifica, noteremmo che le immagini di nostro interesse calerebbero nuovamente. Provate.

Piace VS mi piace

Se un tempo il mio spazio era costruito attorno a ciò che mi piace, ora l’equazione ha eliminato il pronome personale in funzione di ciò che piace e alimenta di conseguenza l’intera macchina della visibilità.

Se è visibile non sempre è frutto di una ricerca

Eccoci al nodo della questione. Piattaforme come Instagram, Facebook e via dicendo sono sicuramente ottimi aggregatori di contenuti in grado di fornire materiale e ispirazione ma solo ai moderni Indiana Jones disposti a sacrificare tempo nella ricerca approfondita.

Non basta infatti selezionare con cura la propria community perché prima di vedere l’ultima immagine caricata da questo o quell’altro fotografo è necessario scansare fastidiose inserzioni pubblicitarie, pop-up e account spam che commentano in modo imbarazzante great pic.

Le migliori intenzioni di un content creator attivo si mescolano a tutto questo rendendolo passivo e in men che non si dica ci si ritrova a percorrere una strada che non è la propria.

Feed

Alimentare, sfamare, nutrire. Ecco le prime tre traduzioni di un termine chiave per questo articolo. Se vuoi essere visibile e quindi comparire nella bacheca delle persone senza che queste fatichino a cercarti devi nutrire la piattaforma che ti ospita. Ma non basta. Il tuo contenuto deve piacere. Se uno di questi due parametri viene meno, la tua voce viene soffocata.

Una mente logica ribatterebbe che basta solo continuare a caricare contenuti.

Corretto, ma in che misura essi piacciono a colui che li pubblica?

Se cercate #wanderalleninvenice su Instagram trovate trentaquattro scatti frutto di una prima selezione e pubblicati secondo un ordine cronologico preciso. Di questi sei mi fanno battere il cuore ma solo uno è stato stampato e incorniciato.

L’aspetto buffo è che quell’unica fotografia non ha raggiunto la visibilità che merita. Che lavoro!

Così son bravi tutti. Cosa proponi?

Articoli come questo finiscono spesso per diventare semplici raccoglitori di lamentele ma non stavolta perché esiste una (almeno) momentanea soluzione: il tempo.

È possibile che nel 2022 esista una piattaforma in grado di aggregare nuovamente creatori di contenuti mantenendoli attivi? E se si, in che modo lavora l’algoritmo?

La piattaforma esiste dal 2015, si chiama Vero e usa la pubblicazione a livello cronologico. Nient’altro. Se due persone si seguono a vicenda, nella pagina principale compariranno solo i contenuti che hanno pubblicato nell’ordine in cui sono stati caricati.

Nient’altro?

Inizialmente mi sono avvicinato all’app solo per le fotografie ma in verità copre uno spettro molto più ampio. È infatti possibile condividere contenuti diversi selezionando il pubblico a cui sono dedicati senza bisogno di raggiungere diecimila followers.

Colui che pubblica un contenuto può scegliere tra quattro livelli di visibilità a cui destinarlo e immediatamente l’app determinerà il numero di utenti potenziali. Allo stesso modo chi compie una ricerca può filtrare la parola chiave in base alla categoria: foto, video, link, musica, film, serie TV, libri, luoghi, applicazioni e videogiochi.

Vero - schermata per definire il tipo di contenuto da condividere.
Finestra per definire la tipologia di contenuto da pubblicare

Piccolo esempio chiarificatore

Ore 09: pubblico una fotografia, aggiungo una didascalia e sistemo un paio di hashtag per indicizzarla. Decido che verrà vista da tutti coloro che mi seguono e pigio ok.

Ore 09:10: ritrovo una vecchia immagine di me insieme ad alcuni amici. La pubblico ma voglio che la sua visibilità sia limitata a una cerchia ristretta. Niente hashtag, niente didascalia pettinata, solo un semplice contenuto che voglio salvare dall’oblio del nero hard-disk! Seleziono la voce amici intimi e pigio ok.

Ore 13: inizio una nuova serie TV e dopo la prima puntata decido di salvarla nella mia pagina personale senza però renderla pubblica. Un paio di click e il gioco è fatto.

Questa operazione vale per ogni contenuto pubblicato. Oltre a followers e amici più stretti sono selezionabili anche conoscenti e amici generici.

Vero - Sharing
Finestra per definire l’audience a cui si rivolge il contenuto

Bentornato mio spazio…ma a quale costo?

In una recente intervista il fondatore di Vero, Ayman Hariri ha spiegato come secondo lui il futuro dei social sia da ricercare nelle subscription: abbonamenti.

Bene, a questo punto dovrebbero essere rimasti solo quelli che vogliono polemizzare oppure approfondire. Ai primi aggiungo che nel momento in cui scrivo questo post l’iscrizione a Vero è gratuita mentre ai secondi consiglio di mettersi comodi perché arrivano le righe fighe!

Abbonamento significa pagare per qualcosa che ora ho gratis

Ogni volta che accendo la televisione tre icone mi ricordano che ho scelto di abbonarmi ad altrettante piattaforme per poter accedere ai loro contenuti ovunque e senza interruzioni. Spesso per gli acquisti strizzo l’occhio a Jeff Bezos e perfino il mio fumettivendolo a suo modo ogni mese richiede la sua libbra di carne. Ma allora come mai quando associo i due termini abbonamento e social network mi vien da storcere il naso?

Percezione

Nel 2013 il Financial Times ha creato un contatore per quantificare il valore dei dati personali di un utente sulla base delle proprie statistiche. Nel mio caso, inserendo hobby, sport e salute, ho scoperto che per un’azienda valgo circa 1,72 euro. A conti fatti dieci persone interessate a cinema, musica, sport e viaggi avrebbero un valore poco inferiore a venti euro. Vi fischiano le orecchie?

Per intendersi, un italiano che viaggia e condivide informazioni generiche su età, sesso e posizione vale all’incirca 0,068 euro. Nel 2022 circa 27 milioni di italiani si son concessi una vacanza per un totale approssimativo di 1.836.000 euro. Una bella botta di autostima vi pare?

Vero non fa altro che proporre un modello di business alternativo alla ricerca di una nuova collaborazione con l’utenza ripagandola in contenuti di valore invece di sponsorizzazioni e pubblicità.

Il lato etico

Ciò che colpisce nell’intervista ad Ayman è la sua volontà di dare un’alternativa e di provare a percorrere una strada diversa rispetto a quella degli altri social network. Potendo contare sul proprio patrimonio personale è in grado di mettere a disposizione del progetto e del team una moneta preziosa: il tempo. Tempo per sperimentare, per trovare nuove idee e perfino per sbagliare.

The real, greatest social network that exists is the one that exists between people in the real world

Da un’intervista alla CNN (Febbraio 2018)

Un hub per condividere tutto, o quasi

Il 29 giugno 2007 un tizio con un dolcevita nero e dei jeans diceva al mondo che il suo prodotto era rivoluzionario e che ogni applicazione poteva avere la propria interfaccia utente. Ancora oggi al lancio di ogni nuovo iPhone la gente si mette in fila fuori dagli Apple Store.

Nel 2016 un ragazzo ha presentato all’Italia una compagnia telefonica senza asterischi dimostrando che una nuova strada era possibile. In poco tempo Iliad ha raggiunto il milione di subscription.

Dal 2015 il team di Vero ha intrapreso una strada ormai nota nel mondo dei social network ma con l’idea di porre la realtà come cardine per la ricreazione di un’esperienza condivisa tra tutti gli utenti. Realtà e social network sono ossimori ma forse è proprio la community la vecchia/nuova destinazione su cui è bene (ri)puntare: persone che vivono esperienze nella realtà tangibile e diventano creatori di contenuti da condividere in quella digitale permettendo ad altri di conoscere, approfondire e scoprire il mondo così com’è, senza filtri. In una parola. Vero.

La domanda che non sai di volermi fare

Ma tu saresti disposto a pagare per un social network? La risposta è complessa perché dovrebbe essere affrontata da varie angolazioni. Tuttavia credo che alla base ci sia un fattore generazionale.

In passato i miei genitori compravano vinili, cassette e cd per ascoltare musica. Andavano al cinema per vedere un film ed erano disposti a pagare per un’esperienza.

Poi Sean Parker ha inventato Napster dando vita a fenomeni successivi quali Pirate Bay basati sulla libera condivisione dei contenuti.

Successivamente eccoci di nuovo all’epoca dei nostri genitori solo in forma diversa: servizi streaming per musica e film.

Il mio io adolescente mi prenderebbe a calci se sentisse che ora sono disposto a pagare per qualcosa che potrei avere gratis ed è questo il fattore generazionale: la consapevolezza che in realtà nulla è gratuito e sta solo alle persone deciderne il valore.

Dal mio punto di vista Vero non è una novità come non lo era Facebook. Entrambe traspongono il racconto di un’esperienza in una serie di uno e zero con l’idea che essa possa creare interesse e portare altri a provarla. I social network hanno permesso a chiunque di condividere parti della propria vita in modo semplice finché la scintilla iniziale non si è smorzata in favore di altri interessi. Utilizzo Vero solo da qualche mese e non me la sento di tirare le somme ma finora il rapporto quantità/qualità del tempo che ho passato sull’app è migliore rispetto alle altre.

La sfida ora è capire senza un algoritmo cosa ci interessa davVero.


Prima di salutarvi, vi ricordo che potete seguirmi su Vero oltre che su Instagram e di iscrivervi gratuitamente al gruppo Telegram per restare sempre aggiornati sulle ultime novità!


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