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Uğur Gallenkuş e la fotografia che racconta

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Il nome di Uğur Gallenkuş è comparso casualmente. Cercavo materiale per un articolo sul racconto fotografico basato su fatti reali analizzando le origini del genere documentaristico e del reportage.

L’argomento era abbastanza semplice perché esiste una variegata bibliografia dalla quale attingere ed ero perfino riuscito a trovare un fil rouge ancor prima di creare la bozza. Poi è arrivato Uğur Gallenkuş e le carte si sono rimescolate.

Cambio di rotta ancor prima di averne una

Fotografare è un’esercizio semplice: una volta trovato il soggetto è sufficiente regolare qualche impostazione e premere un bottone. Un paio di magie in post-produzione e il gioco è fatto.

Raccontare attraverso le immagini, soprattutto nell’ottica della fagocitante società contemporanea è ben altra questione. Il focus è puntato sul messaggio. Il comparto tecnico si sposta in secondo piano generando un’immagine ricca di sfumature semantiche. L’accento sulla bellezza cade e i riflettori si puntano sulle discussioni e le molteplici interpretazioni possibili. Ma andiamo con ordine.

Fotografia documentaristica spiegata a mia nonna

Il documentario è un genere fotografico che si impone di riportare la cronaca quotidiana in modo oggettivo lasciando allo spettatore l’autonomo sviluppo delle idee.

Verso la fine dell’Ottocento John Thomson e Adolph Smith realizzarono una serie di scatti raffiguranti la situazione dei quartieri londinesi ma fu solo grazie a Roosevelt che il movimento prese piede quasi un secolo più tardi dando vita alla figura del fotoreporter. In quegli anni la fotografia era il mezzo per raccontare senza filtri ciò che stava accadendo in ogni parte del mondo a partire dalle situazioni di povertà negli Stati Uniti dopo la Grande Depressione. In questo scenario hanno mosso i primi passi reporter del calibro di Dorothea Lange, Walker Evans e Steve McCurry. Rispetto al testo scritto l’immagine risultava un linguaggio democratico diretto e comprensibile.

La situazione oltreoceano

L’eredità iniziale fu raccolta dal gruppo di amici capitanati da Robert Capa il quale nel 1947 fondò la Magnum Photos per analizzare contesti culturali al tempo esotici come Asia, Africa e America Latina sviluppando uno stile più coinvolgente attraverso un punto di vista più coinvolto.

Nota a Margine

Come spesso accade in questi casi, Capa non aveva idea dell’importanza che avrebbe ricoperto l’agenzia a livello storico e culturale negli anni successivi. Il nome infatti per quanto riferito al corrispondete latino indicante grandezza fu scelto semplicemente perché dal suo punto di vista le decisioni migliori vengono solitamente accompagnate da una gran bottiglia di buon vino.

Dal documentario sociale alla fotografia di guerra

Nel 1853 Carol Szathmari realizzò il primo reportage incentrato sul conflitto in Crimea tra l’impero russo e quello Ottomano. A quei tempi la fotografia era ancora legata al significato iniziale del termine documentale ovvero realtà oggettiva.

Tuttavia sullo stesso campo di battaglia venne impegnato anche l’inglese Roger Fenton, il primo fotografo di guerra della storia nominalmente riconosciuto. A differenza del collega ungherese egli introdusse nei propri scatti un taglio governativo volto a coprire gli aspetti tragici dello scontro per aumentare il favore popolare.

Roger Fenton_Valley of the Shadow of Death
Roger Fenton – Valley of the Shadow of Death

The Valley of the Shadow of Death è la fotografia più rappresentativa dell’intervento di Fenton perché unisce sapientemente la necessità della Famiglia Reale Inglese con l’etica documentaristica cercando di riportare la tragicità del conflitto mostrandone gli effetti sui luoghi anziché sulle persone coinvolte.

Il punto di vista ungherese e quello inglese diventano il primo spartiacque della fotografia di guerra. Szathmari si limita a riportare i fatti in modo oggettivo lasciando alle immagini il compito di trasmettere il messaggio mentre Fenton sposta l’obiettivo di qualche grado rispetto all’informazione inquadrando la manipolazione dell’opinione pubblica.

A questo punto è doveroso precisare quanto il fine non venga privato del suo aspetto nobile. Un reporter dedicato al contesto bellico compie una scelta coraggiosa rispecchiata nelle immagini ancor prima dello scatto. Tuttavia il comparto semantico alla fine dell’arcobaleno potrebbe sconvolgerne il significato.

Robert Capa: storia di un uomo tranquillo

Robert Capa non era interessato alla vita tranquilla e non si sarebbe accontentato di invecchiare ritraendo tramonti dal portico della propria casa in campagna mentre un branco di nipotini chiassosi riempivano la monotonia di una coppia di anziani pensionati.

Al contrario era attratto dall’azione e dalla possibilità di documentare in prima persona i contesti più complicati a livello globale. Nel 1944 infatti prese parte insieme al primo contingente delle forze armate americane allo sbarco in Normandia scaricando in pochi istanti circa quattro rullini prima di svenire a causa della tensione.

Immagini fuori fuoco

Quando la redazione ricevette le pellicole ci fu un problema nello sviluppo che compromise circa tre rullini. L’ultimo conteneva immagini definite fuori fuoco a causa della paura del fotografo che in quel momento gli avrebbe provocato un tremore alla mano.

Agli occhi del mondo tuttavia questo difetto divenne la peculiarità che rese Capa famoso a livello mondiale perché la sua forma di reportage era quanto di più reale e oggettivo si potesse ottenere da un racconto di guerra.

Robert Capa_US troops
Robert Capa – US troops

Successivamente, insieme alla compagna Gerda Taro, la ragazza con la Leica, fu testimone della Guerra Civile Spagnola, della nascita dello stato di Israele e del conflitto indocinese.

Sul filone di Szathmari Capa aggiunse una nuova derivazione al termine fotoreporter arricchendo il valore originario con un punto di vista più partecipativo e soggettivamente oggettivo.

Intervallo

In conclusione potremmo quindi affermare che il fotoreporter documenti fatti di cronaca definendo autonomamente il grado di compromissione del risultato finale a seconda degli interessi soggettivi che lo muovono. Oltre al caso di Fenton nel quale erano di tipo governativo esistono reportage in cui s’intravedono interessi personali, culturali e perfino economici.

L’articolo si sarebbe potuto concludere qui. Il fil rouge è chiaro e la fame di conoscenza è stata saziata dall’approfondimento su Robert Capa. Che motivo ci potrebbe mai essere per sbilanciare l’equilibrio? Eppure quell’ossimoro non vi convince quindi vi propongo due vie: salutarci oppure continuare. A voi la scelta.

Soggettivamente oggettivo

È possibile documentare fatti di cronaca senza essere fotoreporter? Se le fotografie fossero un mezzo da cui partire per realizzare nuove forme semantiche attraverso ad esempio il collage e il design fotografico risulterebbero corrotte dal punto di vista dell’artista oppure manterrebbero il loro valore oggettivo iniziale?

Queste sono le domande che mi hanno spinto a continuare l’articolo quando ho letto il nome di Uğur Gallenkuş.

Fotoreportage e graphic design

Uğur Gallenkuş è un artista turco che vive e lavora a Istanbul. Formatosi da autodidatta trova la sua forma espressiva nel collage realizzando fotomontaggi con immagini diametralmente opposte per soggetti e situazioni ma che una volta unite restituiscono contesti semantici condivisi.

Nel 2015 rimane colpito dalla foto di Aylan Kurdi, il bambino siriano trovato senza vita sulla spiaggia del Mediterraneo diventato simbolo della crisi europea dei migranti. Decide quindi di utilizzare il proprio talento per sensibilizzare l’opinione pubblica a livello globale ponendo un accento particolare sulle disparità sociali.

Una rosa è sempre una rosa?

Uğur Gallenkuş non è un fotografo ne tantomeno un fotoreporter. È un graphic designer che utilizza immagini di altri fotografi impegnati in condizioni estreme per mettere a confronto due universi paralleli.

Uğur Gallenkuş Universi paralleli
Uğur Gallenkuş – Universi paralleli

Attraverso immagini crude e spezzate cerca di provocare una reazione emotiva nelle società privilegiate non solo per la ricchezza economica di cui beneficiano ma per l’assenza di guerra nel loro paese.

Lasciare il segno

Il lavoro di Gallenkuş è singolare perché intercetta la comprensione del pubblico attraverso il linguaggio condiviso della cultura pop e del capitalismo presente nella società occidentale del consumismo.

La vittoria di Lady Gaga viene accostata alla rara possibilità per un bambino in difficoltà di accedere all’istruzione, il tepore di un prato fiorito viene corrotto da una fredda distesa di armamenti. Un gelato diventa un’esplosione e ogni altra immagine di benessere e felicità viene efficacemente affiancata da ritratti di sofferenza, dramma, povertà e conflitto.

Uğur Gallenkuş Universi paralleli
Uğur Gallenkuş – Universi paralleli

Dietro a ogni persona che sorride esiste qualcuno che fatica a trovare il cibo necessario per la sussistenza quotidiana e vive nel terrore della guerra. Questa realtà è attuale propio come la cerimonia degli Oscar o il Super Bowl. Paesi come Siria Afghanistan e Iraq non hanno accesso a quello che per il resto del mondo è talvolta perfino scontato come istruzione e assistenza medica. Il messaggio che emerge nell’opera di Gallenkuş è un invito alla pace e alla possibilità di creare forme di governo migliori laddove necessario esportando i valori che rendono così avanzata e benestante la cultura occidentale.

Ma cosa importa agli occidentali?

Personalmente quando mi sveglio al mattino penso alla giornata che dovrò affrontare, agli impegni di lavoro, allo sport e all’intrattenimento di contorno. Nel corso delle ventiquattr’ore spesso tralascio alcune notizie di cronaca perchè le avverto lontane dal quotidiano. Uğur Gallenkuş è invece riuscito a entrare a gamba tesa nella mia bolla utilizzando l’arte come maestra creatrice di consapevolezza.

Uğur Gallenkuş Universi paralleli
Uğur Gallenkuş – Universi paralleli

Attraverso i suoi collage e fotomontaggi ha elevato il lavoro del fotoreporter non tanto nel contenuto quanto nella forma riuscendo a trasmettere il messaggio e a scalfire la mia campana di vetro abbastanza da rendermi conscio, approfondire e riportare a mia volta attraverso contesti che invece percepisco come vicini quali fotografia e scrittura.

Ultima posa

Alla fine di V per Vendetta, film del 2005 tratto dall’omonima graphic novel di Alan Moore (1982), Evey Hammond risponde alla domanda dell’agente Finch sull’identità dell’uomo dietro la maschera sottolineandone la forma ideale rispetto a quella fisica.

Era Edmond Dantès. Ed era mio padre. E mia madre, mio fratello, un mio amico. Era lei, ero io, era tutti noi

Evey Hammond – V per Vendetta (2005)

Spero che il bardo di Northampton non se la prenda se uso il suo explicit per concludere anche il mio articolo ma lo trovo significativo.

Abbiamo iniziato questo percorso per approfondire il genere documentaristico e la figura del reporter ad esso connesso e siamo finiti a parlare di guerra, graphic design e crisi globali. Ritengo esista un valore oggettivo della cronaca ed è quello a cui possiamo assistere: il fatto propriamente detto. Da lì nasce l’interpretazione soggettiva che fa capo alla cultura individuale e al fine che si vuole raggiungere attraverso l’immagine riportata.

Indipendentemente dalla forma dunque possiamo concludere dicendo che lo sforzo di coloro che desiderano definirsi reporter sia assottigliare la distanza tra il messaggio e il pubblico al quale viene rivolto. Il resto come scritto è facile. Come nella maggior parte dei casi, è sufficiente cliccare un pulsante!


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